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Zaire, dicembre 1982
By admin | dicembre 1, 1982
S H A L O M… sulle tracce di chi costruisce la P A C E!
Zaire, dicembre 1982
Carissimi amici,
come già durante i! servizio in Burundi dal 1969 al 1973, ho pensato di comunicarvi, un po’ della mia vita, per rendere conto a me stesso e a voi che mi seguite con amicizia, delle motivazioni e della Speranza che hanno portato me e mio padre a venire in Africa. Motivazioni e speranze che hanno convinto un gran numero di. donne e uomini, religiosi e laici, a spendere la vita con gli Africani. In gergo missionario si dice che è finito il tempo della Missione «clericale»; ogni esperienza di Missione deve esprimersi in forme di partecipazione e di comunione di tutta la Chiesa, che è essenzialmente un popolo ricco di vita e di doni dello Spirito. In pratica significa che non è più il tempo di delegare i Missionari Sacerdoti a compiere da soli un servizio che è un sacrosanto dovere di ognuno che ha ricevuto dalla vita abbondanza di beni materiali e spirituali.
Inoltre significa che, pur impegnandoci seriamente in un rapporto responsabile verso i meno privilegiati del mondo, noi Europei dobbiamo smettere di considerarci come quelli che insegnano, che danno, che sanno fare andare avanti il Mondo a modo nostro, per assumere l’atteggiamento di chi ascolta e accoglie esperienze e lezioni di vita, di saggezza e di umanità. L’Africa è ricca di questi doni. Se noi siamo pronti a offrirle i nostri, dobbiamo essere altrettanto disponibili ad accogliere i suoi.
Questa lettera perciò cercherà di farvi conoscere i passi della Missione come la stiamo vivendo qui in Zaire; e poi, se me ne offrirete l’occasione, rifletterà anche le tappe del vostro cammino e del vostro impegno. C’è gente che in mille modi diversi sta portando avanti la ricerca appassionata della verità che illumina la vita; la ricerca di modi sempre nuovi di partecipazione e di impegno nel suo ambiente e nella sua comunità. Un confronto onesto tra la nostra e la vostra vita può essere prezioso per tutti.
Intanto notate come ho scelto un nome per la lettera con la quale ci incontreremo: SHALOM, che significa PACE.
Due sillabe facili da pronunciare, in cui stanno condensate
le aspirazioni più forti dell’Uomo di oggi e il suo progetto
più ambizioso; ma tanto difficile da realizzare. La Pace, appunto!
SHALOM rappresenta per me uno stile di Missione.
Quando ero negli Stati Uniti, dal 1977 al 1980, ho partecipato ad un progetto missionario molto bello, in uno dei quartieri neri più malfamati di Chicago, dove le Chiese ufficiali non avevano il coraggio e non ritenevano opportuno di impegnarsi a fondo. «Tanto non serve a niente; – dicevano – è gente senza speranza e senza futuro, non cambieranno mai».
Noi non eravamo d’accordo e proprio là abbiamo avviato una Comunità ecumenica, composta da cattolici di vari ordini religiosi, protestanti di varie confessioni, musulmani e non credenti. L’abbiamo chiamata Shalom, come proposta di speranza e di pace in un quartiere di violenza e di disperazione. Eravamo un mosaico di persone bianche e nere, di nazionalità diverse, di fede e cultura molto differenti.
Però ci eravamo trovati d’accordo su due punti ben precisi! Primo: l’Uomo che ci stava di fronte, anche il più sbandato e fuori posto, meritava tutto il rispetto e l’amore di cui eravamo capaci; prima del pane, del vestito e di ogni altro aiuto dovevamo sapere offrire amicizia e fiducia. Secondo: Gesù Cristo doveva essere punto di confronto e di verifica all’interno della comunità; anche se non tutti eravamo cattolici e neppure cristiani. Anzi, proprio chi non si identificava in nessuna Chiesa e non aveva ancora chiarito i suoi rapporti con Dio, trovava preziosa la Fede e l’esperienza
di chi si nutriva della Parola del Signore. I «credenti» poi, soprattutto noi preti e suore, eravamo costretti a vivere con maggiore fedeltà quella Parola, stimolati dalla grinta e dall’impegno degli altri.
Da come la gente ci accolse e partecipò progressivamente alle proposte di impegno che emergevano dalle loro stesse proposte, ci siamo convinti che per
«fare la Missione» è importante offrire una presenza sulla quale i poveri possano contare in ogni momento per camminare e lavorare insieme; una proposta che non forzi nessuno, ma inviti ad assumere le proprie responsabilità nei confronti, di chi ha fame di pane e di dignità umana, affinché la loro attesa non sia delusa.
Ritengo che questa sarà un po’ la linea del servizio missionario che sto per intraprendere qui in Zaire, dove ho trovato un gruppo di Comboniani che hanno già realizzato un gran bel lavoro.
Intanto ecco un po’ di cronaca di questi, mesi estivi appena trascorsi.
Arrivo a Kinshasa, capitale dello Zaire, il 15 luglio. Con me c’è anche mio padre, ma non in veste di turista; se tutto va bene lavoreremo insieme a lungo. Mentre il JET della Sabena rulla sulla pista assediata dalla savana, un vecchio camioncino antincendio insegue l’aereo sobbalzando in modo grottesco. E’ una scena un po’ patetica e un po’ ironica: mi pare di vedere l’Africa che arranca ad un ritmo di vita che non è il suo e che insegue un’immagine di crescita imposto da altri e perciò difficile da realizzare.
Il pilota improvvisamente ci avverte: «E’ proibito fotografare sul territorio dell’aeroporto»! Mentre mi domando il perché di questa strana proibizione, vedo sfilare attraverso gli oblò del DC 10 un numero straordinario di carcasse di aerei di ogni tipo, relitti di una vecchia storia di lotta e di violenza. Subito mi vengono alla mente i fatti della ribellione e dei massacri che hanno sconvolto il Paese per parecchi, anni dopo l’indipendenza del 1960!. E’ naturale che oggi, questi segni pesino sulla coscienza delle Autorità incapaci di cancellare un passato ormai lontano, e di camminare spediti su sentieri nuovi.
La sensazione di disagio aumenta mentre scendo a terra; quasi prevale sulla gioia di essere ritornato in Africa dopo tanto tempo. Conosco e apprezzo la calma degli Africani, ma qui mi pare che stiano esagerando: sui volti e nei gesti di chi lavora, negli occhi di chi guarda e non fa niente, e perfino sui bassorilievi degli edifici si è come accumulato un pesante velo di apatia.
Per un paese grande e prestigioso come lo Zaire l’accoglienza che Kinshasa offre ai nuovi venuti è un po’ deludente. Ma la realtà è quella; inutile farsi illusioni. Manca l’aereo per Isiro, dove ci aspettano da tempo; allora raggiungiamo una parrocchia alla periferia della città, dove i comboniani sono arrivati da circa un anno. Ci tratteniamo alcuni giorni, giusto il tempo per intravedere alcuni aspetti di questa Capitale che cresce ad un ritmo incontenibile e rappresenta al tempo stesso il problema e la speranza del Paese.
Da Kinshasa a Kisangani, dove l’aereo ci scarica a metà strada perché a corto di carburante. Per fortuna anche lì una base Comboniana ci permette di sostare alcuni giorni l’antica Stanleyville è diventata ora il centro amministrativo di tutto l’Alto Zaire; ma nel cuore della gente pesa ancora l’amara esperienza della ribellione dei Simba.
Finalmente il 26 luglio, giorno di S. Anna, arriviamo ad Isiro, che è un po’ il quartiere generale dei Comboniani presenti in Zaire: sono dodici giorni esatti da quando abbiamo lasciato Roma: di solito bastano dodici ore!
Dopo un paio di giorni ci propongono di visitare alcune missioni dell’est; una vera fortuna, una rapida e diretta introduzione alla realtà zairese. Infatti in poco tempo mi rendo conto delle enormi distanze che separano le varie comunità, dei problemi che assillano la gente, della violenza delle piogge e della potenza del sole, del fascino delle foreste e della situazione disastrosa delle strade e delle comunicazioni, delle tensioni tra la Chiesa e lo Stato in materia di educazione scolastica, delle enormi possibilità di sviluppo economico e degli incredibili ostacoli che lo bloccano. E’ un veloce e intenso contatto con un mondo al tempo stesso duro e affascinante: proprio quello che ci vuole a questo punto della vita.
A fine agosto io mi metto a studiare il Lingala, una delle quattro lingue ufficiali dello Zaire; mio padre va a dare una mano alla Missione di Nangazizi dove stanno per costruire una scuola, e la sua esperienza di muratore può essere preziosa.
Vi scrivo queste note con cuore abbastanza sereno, anche se durante questo tempo ho potuto intravedere alcuni aspetti delicati di una realtà in cui dovremo operare con grande saggezza e prudenza. Più volte i miei confratelli mi hanno parlato di ingiustizie, soprusi e violenze cui la gente è sottoposta ormai da molte parti, sia dalle Autorità tradizionali sia dall’Amministrazione attuale. E’ da tempo che i Missionari intervengono direttamente in difesa di chi è maltrattato, e, se necessario, vanno fino in tribunale a difendere gli innocenti. Ma il guaio è che proprio coloro che dovrebbero proteggere ed aiutare la gente, sono spesso la causa delle loro sofferenze.
Pochi giorni fa, ho visto con i miei occhi, un segno chiaro della situazione in cui stiamo vivendo. Tornavo in motorino da Nangazizi, dopo una visita a mio padre, quando ho incontrato un folto gruppo di uomini che urlavano di dolore. Per rispetto mi sono arrestato e ho chiesto cosa fosse successo. «Padre – mi rispose uno più calmo – vedi … proprio ora stanno arrivando con il nostro amico. L’hanno ammazzato di botte … i soldati!». Sapevo che al dispensario, da due giorni c’era un uomo in coma per i maltrattamenti subiti in prigione. A causa di questa enorme cattiveria, i Padri di Rungu avevano rifiutato di celebrare la Messa per le forze Armate il giorno della loro festa; ma non si pensava che fosse così grave. Dopo un attimo di attesa e di tensione, un gruppo di portatori sopraggiungeva a passo veloce con il morto avvolto in una stuoia e in un lenzuolo; ad un mio cenno si arrestavano in mezzo alla strada. Sentivo che il dolore e le lacrime nascondevano anche tanto rancore e domande dure cui, purtroppo, io non potevo offrire una risposta. Ci siamo raccolti, in silenzio, attorno al cadavere; poi, insieme, a volte alta e a mani alzate, abbiamo pregato quel Dio che ha promesso di custodire e difendere i deboli dalle grinfie dei prepotenti; ma che spesso sembra lontano e impotente di fronte alla cattiveria dell’uomo.
So perfettamente che durante tutta la notte seguente, durante la veglia funebre, insieme ai canti di lutto si saranno alzati pensieri di vendetta, e so bene che ingiustizie del genere continueranno finché non ci sarà una trasformazione a livello più alto. La radice del male viene da lontano.
Le responsabilità vere non sono a livello locale.
Dal 24 novembre 1965 lo Zaire è in mano del Generale Mobutu Sese Seko. Se all’inizio la sua presa di potere era sembrata utile per porre fine alle lotte interne e al caos politico e amministrativo, con il passare del tempo Mobutu è diventato il padrone assoluto. Capo del Partito Unico, il Movimento Popolare della Rivoluzione, Capo del Governo, Capo delle Forze Armate, si prende anche il lusso di farsi eleggere ogni sette anni Presidente della Repubblica.
Quest’anno ci sono state delle elezioni per il decentramento amministrativo promesso fin dal lontano 1977; ma nessuno poteva presentarsi candidato se prima non avesse già superato un severo esame della commissione del Partito. Il che significa che il Partito unico (MPR) viene prima e al di sopra di tutto; è la sola guida politica, economica e sociale. Mobutu ha elaborato e tenta in tutti i modi di imporre una filosofia della Autenticità africana che per molti aspetti è interessante e positiva. Ma i fatti gli danno torto; il suo sistema non funziona.
Le interferenze internazionali e le ingiustizie da parte del nostro Mondo occidentale sono innegabili; però qui c’è una grossa responsabilità da parte di chi ha in mano le redini del potere. I Vescovi della Chiesa cattolica, maturati alla scuola del Concilio Vaticano II e ai Sinodi di Roma, hanno da tempo messo in guardia il paese contro quello che essi hanno definito «il male zairese», cioè la corruzione a tutti i livelli della Società. Ma la situazione continua a peggiorare.
Eppure in faccia al mondo, lo Zaire si presenta con le credenziali di una grande Nazione; spesso Mobutu assume il ruolo di mediatore in delicate questioni politiche e dispute tra i Paesi Africani. Ai primi di ottobre ha radunato a Kinshasa un mare di Capi di Stato e rappresentanti di tutti i Paesi Africani; in questi giorni ha ottenuto dall’America di Reagan un anticipo eccezzionale di parecchi milioni di dollari. I rapporti di Amnesty International che denunciano sparizioni di persone, imprigionamenti arbitrari degli oppositori del regime, torture dei prigionieri politici, non sono riusciti, per ora, a intaccare la sua immagine all’estero e a far tremare il suo trono. Troppa gente preferisce ancora una stabilità del genere, in un
Paese al quale tutte le grandi compagnie multinazionali fanno la corte a motivo delle sue enormi ricchezze naturali. E quando sono in gioco grossi interessi economici anche la voce degli oppressi non arriva lontano.
Per oggi ho finito. Quando riceverete questa lettera avrò già iniziato il mio servizio in qualche missione dell’Alto Zaire. Non mi resta che aggiungervi gli Auguri per il Natale e l’Anno Nuovo.
Voi sapete che i passi di un Missionario seguono quelli tracciati da Gesù di Nazareth, mandato dal Padre a costruire la Pace tra gli Uomini e con Lui. E’ un impegno difficile e delicato, che noi qui in Africa cercheremo di realizzare con tutta la serietà e l’amore che ci è possibile.
Fate altrettanto anche voi, lassù in Europa, lasciandovi coinvolgere da questo progetto di Pace e di Speranza che ogni anno viene riproposto all’Umanità.
SHALOM !… a tutti! E sentitevi in Comunione con noi.
Vostro p. Gianni
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