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Mabayi (Burundi), Novembre 1973

By admin | novembre 30, 1973

G.A.M. ’12 UN IMPEGNO EFFICACE AL SERVIZIO DELLA VITA

Mabayi (Burundi), novembre 1973

Carissimi amici,

strappo due pagine dal mio diario.

21-9-73. Sono a Buja, sotto un gran sole, deluso per una bellissima occasione mancata. A 170 kilometri di distanza c’è il Burundi in festa. Almeno due Cardinali, un bel gruppo di Vescovi, moltissimi Sacerdoti e qualche migliaio di fedeli. Sono convenuti oggi a Ruyigi per il 75° anniversario dell’arrivo dei Missionari Cattolici in Burundi: una data storica che si celebra con una certa solennità, nonostante il ricordo ancora bruciante della rivoluzione dell’anno scorso.
Per l’occasione consacrano un nuovo Vescovo e gli affidano la Diocesi creata apposta per lui. Ha trentasette anni, si chiama Gioachino Ruhuna, è il sesto Vescovo Mukundi della serie. Per partecipare alle solennità avevo ricevuto anch’io un invito ufficiale, insieme con un rappresentante dei miei cristiani; ma tutto è andato a monte per colpa della Toyota.
Non è che gliene voglia, la Toyota è sempre grande; ma non era quello il giorno da farci questo brutto scherzo.
Siamo partiti all’alba. I pochi chilometri di pianura li abbiamo divorati in un soffio; poi su di slancio, sulle colline, in direzione di Gitega. La strada è la Nazionale N. 1: asfaltata e adatta a corse sportive; tenta quasi alla velocità. Nonostante la salita la Toyota non accenna a sforzo alcuno.
Decimo chilometro: sul più bello il motore sussulta due o tre volte, sembra un improvviso colpo di tosse soffocato. Faccio gli scongiuri: « Cosa può essere? ». Tendo l’orecchio. Il motore si è rimesso a cantare bene; non odo più nulla.
Ma dopo due o tre chilometri riecco il rumore sospetto: è proprio come un insistente colpo di tosse che scuote il motore e tutta la vettura. I passeggeri se ne sono accorti e ci domandano cosa sia. Gioco un po’ sulle marce; rallento e cerco di non disperarmi prima del tempo: «Speriamo che passi… sarà un po’ di sporco nella benzina ».
Intanto il sole si innalza sulle creste delle colline.
I passanti sono rari.
Ventesimo chilometro. Ho ridotto ancora la velocità per timore di forzare il motore: non si sa mai; il brutto segnale si è fatto sentire altre volte. Proprio la Toyota non si fa onore.
Trentesimo chilometro. Il passo di Bugarama è vicino. Qualcuno comincia a sorpassarci: il ritmo del motore si affievolisce assai: anche in prima non va. Il maledetto sussulto si ripete due o ire volte di fila.
Non conviene insistere oltre e mi tiro da parte. Stop.
Cosa faccio? Io di meccanica non me n’intendo; ma i sintomi sono gravi: l’acqua del radiatore bolle, il motore non ha forza, qualche diavolo ci ha messo le corna. Siamo delusi e avviliti; ma non ci resta che scaricare sull’asfalto il Padre Benvenuto e il gruppo delle suore.
«Cercate di arrangiarvi in qualche modo; io ritorno in città»!
I passeggeri prendono l’avventura scherzando. Ci sono tante ore di sole in una giornata; qualcosa di bello potrebbe ancora accadere.
Intanto salgono dal basso, sempre più numerose, le auto di quelli che, come noi, sono diretti alla festa.
Sono splendide Mercedes e veloci Peugeot, insieme a molte semplici Volkswagen: tutte ci fanno un po’ invidia.
Alcuni amici si fermano e ci compassionano. Ma nessuno può prenderci con sé. Bisogna proprio rassegnarsi e tornare giù in città, rinunciando a tutto.
Una bella suonata davvero, e purtroppo, il giorno seguente, anche una bella fattura da saldare.

Per un’occasione andata a monte, ne abbiamo avuto un’altra centrata in pieno. Proprio il giorno seguente alla disavventura, con la Toyota rimessa in sesto siamo ripartiti per il Centro del Burundi. Obiettivo ben preciso: ritrovare per Cesare e Antonia una bambina orfana conosciuta già l’anno scorso. Una bella creatura di forse quattro anni, vivace e intelligente.
I nostri amici che lavorano a Mabayi come volontari, non hanno bambini, e per loro è una grossa sofferenza! Ma hanno il cuore grande, e non si sono scoraggiati. L’amore forte che portano dentro, li ha spinti ad una scelta assai coraggiosa: provare ad educare una bambina murundi, e poi, se possibile, adottarla.
I rischi non mancano. Ma si sono messi in questa impresa con animo sereno e attento; non sono egoisti, non vogliono costruirsi una figlia a modo loro. Le scelte più importanti sarà lei stessa a farle una volta cresciuta. Vogliono offrirle una bella occasione per vivere e farsi strada: cosa che difficilmente avrebbe qui in Burundi. La bambina aveva perso i genitori durante la rivoluzione del 1972; dopo varie peripezie era finita in un orfanatrofio. Era tutto quello che sapevamo di lei; ma eravamo decisi a portarla a
Mabayi.
Arrivammo a Mugera verso il tramonto. Ci presentammo all’orfanatrofio: «Allora, siamo venuti a prendere Joséline!».
La direttrice, dopo averci accolto con gentilezza si mostrò preoccupata. «Non è possibile. I nonni della ragazza si sono rifiutati; non vogliono cederla»!
Ma come? Dagli scambi di lettere e dai contatti con alcuni familiari sembrava una cosa possibile, quasi facile.
Invece, di colpo, il rifiuto. Non ci pareva vero.
La piccola era davanti a noi, ci aveva riconosciuto; aveva l’aria un po’ sciupata. Insistemmo a più riprese; ma a nulla valsero le nostre spiegazioni e le proposte. «Non posso darvela; abbiate pazienza! Prendetene un’altra» – ci suggerì la direttrice.
Ma Antonia non riusciva a staccare gli occhi dalla bambina.
Fin dal primo e ormai lontano incontro un certo affetto si era creato nei riguardi di Joséline. «Non mollare Gianni – mi sussurrò in italiano – se possibile voglio proprio lei».
Forse nel suo cuore di mamma sentiva di avere fatto una buona scelta. Non poteva quindi abbandonarla così facilmente. Per fortuna restava ancora una carta da giocare: presentarsi direttamente alla famiglia. «E’ lontana da qui la casa dei nonni?».
La direttrice mi mostrò la collina di fronte: «E’ laggiù; un po’ in macchina e un po’ a piedi si potrebbe arrivare». Bastò questa possibilità per farci scattare: non c’era, infatti, tempo da perdere. Guidati da un ragazzino neppure molto esperto, al cadere delle tenebre abbiamo raggiunto la capanna dei nonni di Joséline.
Era proprio la mossa esatta da fare.

Un conto è chiedere un bambino per lettera o tramite una terza persona; e un conto è presentarsi in carne ed ossa dando garanzie concrete sul suo avvenire e la sua educazione. Forse i due anziani desideravano da tempo conoscere dì persona questi stranieri che volevano allevare la loro nipotina. Ci ricevettero con onore e rispetto, secondo le loro tradizioni .
In nostro favore parlò la Direttrice dell’Orfanatrofio Parlò anche un bravo mushingantahe, Ignazio, un capo della Comunità cristiana. Il vecchio nonno ascoltò attento e poi rispose: pacato, convinto e soddisfatto: “Prendete pure la bambina; ora so che le vorrete molto bene e le darete quello che io non potrò mai offrirle nella mia vita!”.

Il ritorno a Bujmbura nella notte, fu una bella corsa sotto le stelle. Eravamo entusiasti per il colpo riuscito.
Adesso, nella nostra casa di Mabayi, c’è un’atmosfera nuova; sa più di famiglia.
Joséline si è adattata alla perfezione: è una perla di bambina, nonostante i suoi bravi capricci, le molte lacrime e, ogni tanto, la pipì che fa nel letto quando beve troppa birra o troppo the.
Cesare e Antonia sono assai contenti, perché un sogno vecchio come il loro amore, sta diventando realtà poco alla volta. Antonia si arrangia già con il Kirundi. Ma è comico sentire Cesare che si accanisce a dare consigli o a sgridare la piccola in dialetto milanese.
E’ più forte di lui. L’italiano è restato solo per le grandi occasioni; il francese si riduce a poche
espressioni piuttosto brusche; ma il dialetto viene fuori che è una meraviglia.
Joséline lo ascolta con gli occhi sbarrati; quando non ne può più sorride. Quello che conta è che si intendono a meraviglia e si vogliono bene. Per ora è abbastanza. Il resto verrà un po’ alla volta.

21 ottobre. Giornata Missionaria

Sono in giro da otto giorni su per le colline. Torno a casa stasera abbastanza stanco. So bene che in questo mese lassù in Europa, si parla di missioni e missionari in tutte le chiese.
Si fanne anche tanti gesti di amichevole sostegno nei nostri riguardi.
Ce n’è proprio bisogno. Perché con l’andare del tempo, il nostro lavoro diventa sempre più duro. Ci si sente pochi e sperduti m un’impresa tanto grande. Si avvertono i limiti del nostro lavoro; alcuni aspetti della vita che ci restano impenetrabili, cominciano a pesare gli insuccessi, la freddezza degli amici e una fatica accumulata in tanti anni.
Tuttavia, e nonostante tutto bisogna restare ottimisti; bisogna continuare a seminare con fiducia e con tanta speranza. Seminare « vangelo » in fondo è un mestiere bello; ma promette gioia e soddisfazione completa solo ad una data scritta nel cuore di Dio.
Per questo la vostra amicizia e il vostro sostegno ci sono indispensabili.

Un caro e cordiale saluto. Presto ci rivedremo.
Ciao a tutti e grazie. Vostro p. Gianni

Topics: '68 - '73 Burundi | No Comments »

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